Wi-Fi assente, radici connesse

 

Elisa non aveva mai avuto una grande passione per la campagna. Nonostante le fosse sempre piaciuto guardarla nei documentari, con la voce rassicurante del narratore che descriveva la “magica semplicità della vita rurale”, e trovasse affascinante l’idea di una vita semplice a contatto con la natura, con il pane fatto in casa e le galline che becchettavano nel cortile, purtroppo ogni volta che aveva provato ad avvicinarsi alla vita bucolica, la sua esperienza era finita per somigliare a un episodio di Sopravvivenza Estrema, ma con più fango e meno dignità. Nemmeno i filtri di Instagram riuscivano a salvarla. Neanche ora, in piena campagna e non molto distante dal vecchio casale di famiglia, con una valigia troppo piccola e piena di dubbi, e una voglia enorme di girarsi e tornare indietro.

L'edificio si mostrava già a trecento metri da lei con l’aria di chi ne ha viste troppe e si è rassegnato al declino. Probabilmente a causa dei sensi di colpa che aveva, le sembrava che la casa la fissasse come un parente burbero a cui non aveva mai scritto a Natale. Le imposte pendevano come un anziano stanco, il vialetto di ghiaia era ormai terra di conquista per le erbacce, e un gruppo di piccioni sul tetto la osservava con l’aria di chi la sa lunga. Avrebbe giurato che uno di loro la stesse proprio giudicando, mentre muoveva il collo ripetutamente nella sua direzione quasi a indicarla al resto della banda.

Dopo anni passati in città, tornare non era esattamente nella sua lista dei desideri, ma qualcosa l'aveva spinta fin lì. Forse la nostalgia. O forse il messaggio passivo-aggressivo di sua madre: Se non vai a sistemare la casa della nonna, ti disconosco! Con affetto, mamma”. Del resto, il testamento parlava chiaro: la casa sarebbe andata all'unica nipote della cara vecchina, a patto che se ne fosse occupata personalmente; in caso contrario, sarebbe stata donata a un’associazione benefica per… qualcosa. Malattie rare? Orfani? Che assurdità! Donare il casale che apparteneva alla loro famiglia da oltre tre secoli? Quale scempio! Sul momento, la notizia turbò talmente tanto la madre di Elisa da farle rimuovere subito dalla mente la natura della beneficenza a cui sarebbe andata in dono la sua casa d'infanzia.

Torniamo però a Elisa, la giovane donna cresciuta in città, dal viso espressivo e dallo sguardo che sembrava dire: ma che ci sto a fare qui? Con la mano destra spostò alcuni lunghi ciuffi castani dal viso, nel tentativo di fermarli dietro l’orecchio. Sbuffò e si chiese se il vento avrebbe mai smesso di disturbarla: poco prima le aveva fatto volare via anche il bigliettino del notaio, utile per contattarlo nel caso cambiasse idea e rinunciasse all'eredità. O alla salute mentale della madre. Questo pensiero la fece sorridere per un momento, mentre si allontanava dalla macchina per dirigersi verso l'ingresso del giardino. Era snella, con quella resistenza nervosa di chi aveva affrontato mille riunioni, troppe mezze relazioni e mille “poi vediamo”. Indossava jeans, scarpe inadatte alla campagna e una giacca sottile come le sue certezze.

«Ce la posso fare», sussurrò per autoconvincersi, prima di spingere con coraggio il cancello arrugginito. Cancello che però si staccò dai cardini con un rantolio metallico, crollando a terra.
«Forse no.»
Con una smorfia rassegnata e una grazia discutibile, scavalcò il cancello ormai declassato dal suo compito, cercando di non far incastrare i piedi tra le sbarre e inoltrandosi così nel vecchio giardino. Si guardò attorno ed emise un sonoro sospiro, rassegnata: il giardino era un tripudio di erbacce che sembravano uscite da un film di fantascienza. Gli alberi erano sopravvissuti, certo, ma con quell'aria da “Dove diavolo eri finita?” che solo la natura sa avere. Infine, al centro del verde abbandonato, c’era lui: il vecchio ulivo. Per la prima volta da quando era arrivata, Elisa finalmente sorrise. Era ancora lì, fiero, ritorto e incredibilmente vivo, con le sue radici nodose che affioravano dalla terra come vene su un pugile in pensione.
«Oh, ma tu stai benone» disse, appoggiando una mano sulla corteccia. Il vento le rispose con un sussurro tra le fronde. Elisa sgranò gli occhi e alzò in fretta il volto, cercando qualcosa o qualcuno tra i rami. Avrebbe giurato di aver sentito un flebile: «Finalmente».

Chiuse gli occhi e scosse la testa. Troppo stress. Troppo ossigeno pulito dopo anni di smog. Probabilmente la sua sanità mentale stava iniziando a cedere. O forse era stato solo il suono dei tarli che fanno un happy hour dentro le travi della casa.
Per distrarsi, esplorò l'interno della proprietà, muovendosi per il casale e aprendo vecchi cassetti che odoravano di naftalina e segreti. Trovò una radio a pile che trasmetteva solo fruscii e una scatola di bottoni divisi per colore da qualcuno che doveva aver avuto una mente molto paziente (o disturbata). Trascorse più di un’ora a cercare di accendere il boiler senza rischiare di diventare la protagonista di un nuovo episodio di Esplosioni Casalinghe, e altre due a combattere con una famiglia di ragni sotto quello che sarebbe dovuto essere il suo letto per la notte; e un tempo imprecisato a chiedersi se fosse possibile morire di nostalgia per il Wi-Fi. La sera la trovò esausta sul gradino della porta a osservare il tramonto come si guarda un caffè troppo corto: con rassegnazione e un filo di speranza.

Per un attimo, il silenzio fu quasi bello. Quasi godibile. Il non suono della campagna era così diverso da quello della città. Non si sentivano clacson o un portoni in lontananza chiusi troppo forte o, ancora, gli autobus che aprivano le porte mentre una voce registrata annunciava la fermata. Ci si sarebbe potuti quasi abituare. Se solo si fosse potuto ignorare la colonia di zanzare che le stava martoriando il collo.
Era però quasi arrivato il momento di rilassarsi con gli avanzi del pranzo tenuti per cena, per andare poi a dormire e recuperare le energie.

La notte era immobile, immersa in un silenzio così denso da sembrare irreale. Poi, un suono lieve. Uno scricchiolio ritmico, come passi lenti sull’erba umida. Elisa spalancò gli occhi nel buio. Restò immobile, trattenendo il respiro e cercando di capire se stava ancora sognando.
Ci fu un altro passo. E poi un altro ancora.
Il vento, che prima accarezzava appena le fronde, ora sembrava trattenere il fiato con lei.
«Ok. È solo la casa che si assesta. O il vento. O un serial killer…» mormorò, aggrappandosi alla razionalità come a una coperta troppo corta.
Scese in punta di piedi, armata  di… una scopa. Perché, ovviamente, niente dice sono pronta come una scopa brandita con convinzione. Si fermò infine per un momento davanti alla porta d'ingresso, cercando un modo per aprirla senza lasciar andare la sua preziosa arma di fortuna. Dopo essersi guardata attorno, decise, in equilibrio precario, di aprire la porta con un piede.

Fuori, ferma nel chiarore lunare, un’ombra la fissò, paziente. Alta. Capelli raccolti in una lunga treccia argentea. Un’aura lunare, quasi come nelle pubblicità delle creme antietà.
Elisa impallidì e strinse ancora più forte la scopa tra le mani «Oh no. No no no. Sono troppo giovane per le apparizioni mistiche. C’è un tutorial per questo?»
L’ombra sorrise. «Sei tornata.»
«Ehm… Nonna?» disse a fil di voce.
«Chi altri? Il fantasma del catasto?»
La ragazza, stanca e convinta che stava perdendo il senno, allentò la presa sulla scopa e si stropicciò il volto con una mano. «D’accordo, sto parlando con il fantasma di mia nonna. Questo non è normale. Tu sei un’allucinazione. Direi che ho decisamente bisogno di dormire di più.»
«Prima di tornare a letto, ascolta», lo spettro si voltò leggermente, indicando con una mano trasparente la radice più grande dell’ulivo. «La famiglia è come un albero.»
«Oh, no. Ti prego, niente metafore botaniche a quest’ora.»
«Le radici ti tengono legata alla tua terra.»
«Già, anche al rudere che mi hai lasciato in eredità.»
La nonna le lanciò un’occhiata severa. «Sei sempre la solita. Ma se le radici si spezzano, sai cosa si fa?»
Elisa sospirò, chiara su dove stesse andando a parare. «Si ripianta, lo so. Ma cosa?»
Lo spettro sorrise. «Una vita nuova, dei nuovi rapporti. Un senso di appartenenza che non dipenda solo dalla tua connessione internet.»
Soppesò l’idea. Aveva lasciato morire quel legame. Aveva lasciato la casa per mesi a marcire, i ricordi a impolverarsi, i rapporti a sfaldarsi. Persino sua madre, che non sentiva da mesi se non per quel messaggino arrabbiato a cui non aveva mai risposto, anche se aveva obbedito.
«Va bene. Ci provo», rispose alla nonna che, però, era già svanita nel vento.

L’indomani, dopo aver passato più tempo del dovuto dentro al letto a rimuginare, Elisa si svegliò con un’unica certezza: rafforzare le vecchie radici e, forse, iniziare a piantarne di nuove. Almeno in senso figurato, per il resto avrebbe assunto un giardiniere. Avrebbe potuto per esempio chiamare sua madre senza farla urlare per cinque minuti di fila. Aveva una strana sensazione: non di paura, non di ansia. Piuttosto… di possibilità.
In giardino, seduta su una delle radici emergenti dell'ulivo, ci mise più tempo del necessario a trovare il numero sulla rubrica e impiegò altrettanto tempo a convincersi di premere il tasto di avvio chiamata.
Dall’altro capo, un attimo di silenzio. Poi una voce esitante. «Elisa?»
Silenzio, di nuovo, ma poi, con un sorriso: «Sì, mamma. Sono pronta per parlare di quanto successo».
E giurò di aver sentito, nel vento, un lieve fruscio d’approvazione. Era la nonna?
Forse era solo la natura che, per una volta, faceva il tifo per lei.
O forse erano i piccioni.

Opera in copertina: "Christina's World" (1948) di Andrew Wyeth

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